sabato 8 agosto 2015

Accettare il male - Acceptance


Una delle violenze più forti che ricordi della mia malattia non riguardava le terapie o i loro effetti collaterali, che pure erano pesantissimi (alcuni problemi li ho tuttora a oltre quattro anni di distanza da allora).

Ero nel pieno di un periodo di super lavoro: notti in bianco, pause pranzo inesistenti, occhi che chiedevano pietà davanti al computer.
In quel marasma qualcosa si spezzò e il mio sistema immunitario andò in tilt.

Mi ritrovai in un posto sconosciuto, fatto di lenzuola bianche, di infermieri operosi con le loro mascherine verdi, di esami, prelievi… di silenzi interminabili, di penombra per le finestre abbassate e di fastidiose luci al neon.

Raramente avevo visto un ospedale da dentro, prima di allora. Giusto perché passavo a trovare qualcuno, per una mezz’ora.
Ma quella volta era diverso: nel letto c’ero io. E gli occhi dei medici durante le visite avevano un’espressione nuova: fra il distacco professionale e il contatto umano.

A me pareva di disturbare. Di occupare un posto riservato a persone gravi.
Non sapevo cosa avessi, non lo immaginavo lontanamente.
Pensavo al lavoro, alle mille cose da fare.
Pensavo a come sarei arrivato alla fine della settimana se non potevo muovermi.

Quando seppi la diagnosi fu un colpo micidiale: leucemia.

Non conoscevo la malattia, non conoscevo l’ospedale, non sapevo nulla di nulla.
Ero lì, con la febbre altissima, al punto da annebbiarmi la testa e la vista.
E continuavo a pensare a quando sarei potuto tornare in ufficio a correre dietro alle mie cose...
Come se quel pensiero fosse l’ultimo appiglio di normalità in mezzo a un gorgo di brutte notizie che mi trascinavano verso il fondo.

E la violenza più forte fu il momento in cui dovetti lasciare quell’appiglio.
Mi resi conto che non sarebbe stata una cosa breve. Che anzi sarebbe stata lunga e dolorosa.
Che il lavoro avrebbe dovuto aspettare. Che la mia vita avrebbe dovuto aspettare.
Che la mia stessa esistenza non era più una cosa scontata.

Da sano a gravemente malato.
Da vivere a sopravvivere.

Faticai molto ad accettare quel nuovo stato di cose.

La consapevolezza che c’era un altro mondo oltre a quello che conoscevo.
Fatto di dolore, di piccoli passi, di speranza, di cure, di preghiere.
Dove il tempo scorre lentissimo e hai lunghe ore per pensare.

Perché nonostante tutto la mente resta lucida e dopo avere scalpitato come un cavallo selvaggio, poi si calma e ti aiuta a convincerti che in fondo si tratta di una nuova prova, un esame difficile, un grosso ostacolo da superare.
Che sarà una fase lunga e pesante. Che avrai voglia di piangere, ma che si può piangere camminando, andando comunque avanti.

Affrontare un mostro, ancorché imprevisto, non è mai facile.
Ma dal momento in cui cambi visuale e sei nello stato mentale giusto, da quel momento puoi considerarti pronto a lottare.

Per vincere.





domenica 17 maggio 2015

Quarto anno - The fourth year


Il 17 maggio di quattro anni fa ero nel punto più basso della mia parabola discendente.
Corroso dalla leucemia, schiacciato sotto il peso delle chemioterapie e ulteriormente appiattito da un pesante ciclo di radioterapia.

Ero isolato nell'Unità Trapianti di Midollo dell'ospedale, sprofondato nel letto e con tre pompe elettromeccaniche che mi somministravano fluidi senza sosta attraverso un catetere venoso che mi si inseriva nel petto.

Quattro anni fa, oggi, avevo appena finito di perdere ancora una volta tutti i capelli e con i miei 55 kg ero magro come non lo ero mai stato.

Sapevo che nelle ore precedenti, mio fratello, risultato donatore compatibile, si era sottoposto a un generoso quanto doloroso prelievo di sangue midollare dalle sue creste iliache.

E da un momento all'altro aspettavo l'ingresso nella stanza di qualcuno con il siero salvavita che avrebbe sostituito il mio midollo malato ormai annichilito dalle terapie.

Era un pomeriggio sereno e nonostante la finestra fosse ben chiusa potevo avvertire il calore del sole. A breve sarebbe stato giugno quando finalmente, salvo imprevisti, avrei lasciato l'ospedale per tornare a casa.

Una sagoma apparve oltre il vetro della porta e due occhi celesti mi scrutarono per un lungo istante. Tutti in quel reparto indossavano cuffia e mascherina e io mi ero già abituato a riconoscerli osservando la loro corporatura e i loro movimenti.

Matteo, l'infermiere con il cielo negli occhi, scostò la porta con cautela ed entrò.
Reggeva, nell'incavo del gomito, come si tengono i neonati, un fagotto rosso scuro.

Mi si avvicinò, verificò ogni dettaglio sull'etichetta della sacca di sangue midollare chiedendomi i dati anagrafici.

Poi appese la sacca all'asta per le infusioni, la collegò e un istante prima di avviare quel delicato processo mi suggerì di fare pensieri positivi e di speranza.

La mente corse velocissima... la vista del bagno di casa da una prospettiva sconosciuta appena dopo essere svenuto, l'ingresso al pronto soccorso oncologico, il momento drammatico in cui seppi di essere malato di leucemia, le iniezioni di chemio che mi abbattevano, le risalite con la conta quotidiana dei globuli bianchi, il sorriso del medico che mi comunicava l'accertata compatibilità di mio fratello come possibile donatore di midollo, le tante persone meravigliose che avevo conosciuto e a cui volevo dimostrare che la loro fiducia e la loro stima nei miei confronti erano ben riposte...

La trasfusione ebbe inizio sotto lo sguardo attento di Matteo che regolava la velocità di caduta del sangue.
Quando tutto fu ben assestato e verificato, Matteo mi lasciò...

Io ero quasi ipnotizzato dal ritmo delle gocce rosse che cadevano dalla sacca nel tubicino che le conduceva al mio petto, una alla volta, una dopo l'altra...

Tornai con lo sguardo al cielo, oltre il vetro della finestra...

Lo stesso cielo a cui guardo oggi, quattro anni dopo, con la stessa ferma convinzione che supererò l'ennesima prova. Oggi come allora.

Perché nel frattempo sono cambiate molte cose, comprese le mie anche che, a causa delle terapie, sono andate in frantumi e che, dopo innumerevoli tentativi di recupero, ho appena rimpiazzato con parti di titanio e ceramica.

Ma non è cambiata la forza con cui resto tenacemente aggrappato alla vita, la cui nascita si celebra coi compleanni, e la cui rinascita, dopo un trapianto di midollo, celebro ogni anno da quel 17 maggio 2011.

Condivido dunque la mia gioia per questo giorno così significativo con: mio fratello a cui sarò eternamente grato per il suo gesto, mia moglie che mi è sempre stata vicina, la mia intera famiglia, tutti i medici e gli infermieri che ho avuto il privilegio di incontrare, gli amici speciali che mi raccolgono quando cado e quelli che mi seguono con il loro affetto.

E un pensiero commosso va agli amici che ho perduto, da cui ho ricevuto formidabili lezioni di dignità e a tutti coloro che stanno lottando contro la malattia.

Alziamo dunque il calice e brindiamo alla vita, così bella, preziosa e sfuggente.





mercoledì 12 novembre 2014

24 novembre - November 24


Mi reggevo in piedi a fatica. Mia moglie mi affiancava e parlava con l’infermiere all’accettazione del Pronto Soccorso.
Lui prese un modulo in bianco e iniziò a scrivere i miei dati: nome, cognome, data di nascita…

Terminate le pratiche di ingresso mi fu assegnato il codice verde e mi fecero varcare la soglia del reparto.
Mi misero disteso dicendomi di aspettare e prima di lasciarmi solo, tirarono una tenda intorno al perimetro della mia barella.

Fu un’attesa lunga. Dapprincipio ero attento alle voci che mi circondavano. Era un andirivieni continuo. Le voci non erano tante, potevo seguire i discorsi. Parlavano dei turni di servizio di fine anno. Era il 24 di novembre, presto sarebbe stato Natale.

A poco a poco gli occhi si chiusero e mi addormentai...

Mi sentii scuotere una spalla e la luce del soffitto mi abbagliò.

“Deve fare una radiografia al torace.” disse un infermiere con un leggero accento del sud.
Era quello che si lamentava perché gli era capitato il turno peggiore.

“Non so se mi reggo in piedi” risposi.
“Ecco guardi, le dò una sedia a rotelle.” rispose l’infermiere accostando al letto una vecchia carrozzella con le imbottiture di plastica.
Mi aiutò a trasferirmici sopra e prese a spingere con passo veloce.

Percorremmo alcuni corridoi, tutti vuoti, fino a quando raggiungemmo l’ambulatorio di Radiologia.
Mi piazzò su un lato, davanti alla porta chiusa, mi disse di attendere e salutando col palmo della mano se ne andò.

In quel corridoio deserto, sentivo solo il ronzio delle luci al neon…
Le linee regolari sul pavimento inducevano la vista a percorrere tutta la prospettiva fino al punto più distante.
E sui muri, a mezza altezza, si estendevano le protezioni paracolpi per le barelle.

Non ero affaticato, ma avevo il fiato corto… stranamente...
Corto. Sempre. Più. Corto…

Cercai di alzare gli occhi al soffitto perché sembrava che la luce stesse affievolendosi.
Una coltre scura calò dall’alto e una miriade di stelle brillanti presero a danzarmi negli occhi.

Capii subito che stavo per svenire.

Sapevo che la posizione seduta non fosse la migliore per evitare uno svenimento: era molto importante tenere la testa in basso, restare distesi, meglio ancora con le gambe sollevate. Ma ebbi paura di buttarmi sul pavimento. Paura di sbattere la testa o di rompermi qualcosa cadendo.

Sollevai i piedi e appoggiai i talloni sulla protezione per le barelle. Ero seduto a un livello più basso quindi le gambe andavano effettivamente verso l'alto. Sperai che potesse bastare. Poi cercai per quanto mi fosse possibile di reclinare la testa all'indietro e di abbassare il tronco.

Provai con una mano a tirare il freno della carrozzella che tendeva ad indietreggiare, ma nella concitazione non mi riuscì di trovare la leva. Così afferrai i cerchi di metallo delle ruote e serrai forte le mani per bloccare la carrozzella.

Rimasi così, immobile, per alcuni lunghi istanti, con i denti stretti per lo sforzo...

Poi quel velo oscuro lentamente si sollevò e tornai a mettere a fuoco le immagini davanti a me.
Anche il viso di quel medico che aveva aperto la porta e dalla soglia, con un’espressione stupita per avermi trovato in quella strana posizione, mi fece: “Prego entri, tocca a lei…”

Mai parole furono più profetiche.
Toccò senz'altro a me.

La radiografia evidenziò un grosso focolaio nel polmone sinistro.
Avevo una grave polmonite.

Una dottoressa mi fece un prelievo di sangue arterioso dal polso: l'emogasanalisi.
Fu piuttosto doloroso: l'ago non trovava l'arteria e la dottoressa fece diverse manovre per "cercarla".

Quel gesto di scavarmi dentro e prelevare qualcosa, da allora va ripetendosi, solo in forme diverse...

E l'esito di quell'esame del sangue fu ben più serio della seppur grave polmonite.
Il mio sistema immunitario era totalmente fuori controllo.

Avevo sì una grave infezione ai polmoni, ma soprattutto avevo la leucemia!

Chiamarono mia moglie: “La situazione è disperata. Non sappiamo se ce la farà...”

A volo d’aquila, ecco cosa successe poi...

La polmonite guarì grazie a tanti antibiotici e molti giorni di “ginnastica polmonare” con una macchina odiosa.
Poi passai alla malattia più spaventosa. Feci alcuni cicli di chemioterapia in preparazione del trapianto, e qualche giorno prima dell'evento affrontai la radioterapia.

Poi mio fratello con un gesto altissimo mi donò il suo midollo salvandomi la vita.

Da allora, per mia grande fortuna, la malattia non si ripresentò più.

Ma qualcosa era successo. Le terapie hanno sempre degli effetti collaterali.
Nel mio caso mi provocarono due osteonecrosi che letteralmente “grattugiarono" la testa del femore di entrambe le anche.

Il secondo anno dopo il trapianto iniziai a camminare con le stampelle.
I chirurghi ortopedici mi dissero subito che non c’era alternativa per me: avrei dovuto operarmi di protesi d’anca bilaterale.

Non mi arresi all’idea e tentai tutto l’umanamente possibile: agopuntura, camera iperbarica, magnetoterapia, idrochinesi, manipolazioni, osteopatia... Dopo un anno e mezzo qualcosa migliorò ma non fu sufficiente.

Ora mi accingo a farmi operare. E proprio nei giorni intorno al 24 novembre, quel fatidico anniversario, quattro anni dopo, ancora una volta mi scaveranno dentro per togliere qualcosa che ha smesso di funzionare...

Lo so, non ho il diritto di pretendere che la mia esperienza di paziente finisca qui e che mi sia garantita la serenità per il resto della vita.
Ma non tollererò più l’idea di dover affrontare con disinvoltura nuove prove in nome del fatto che sono stato forte una volta superando di peggio.

Se non potrò evitarlo, lo farò. Perché va fatto.


All’uscita dal tunnel che temeva non avrebbe più lasciato, il viandante proseguì per la strada aperta.
E la natura, che in quel tratto lo sferzò con il vento e la pioggia, gli parve bella e clemente nonostante tutto.




giovedì 17 luglio 2014

Ce la faccio! - I can do it!


Trascinavo le mie gambe stanche lungo il corridoio. Su e giù. La mano destra chiusa intorno all'asta con le sacche e le bottiglie per le infusioni. Quell'asta con le ruote, compagna inseparabile di mille giri di boa da una vetrata all'altra fra Ematologia e Oncologia.

E osservavo i parenti che entravano pensando ai loro cari. Avevano il passo veloce, loro, e venendomi incontro trafelati mi davano una rapida occhiata. La mascherina, le mie gambe, le braccia magre, l'asta con le sacche appese e la pompa per l'infusione che funzionava a batteria.

Mi giravano intorno badando di non farmi inciampare e proseguivano oltre sui binari dei loro pensieri.

Li vedevo sedersi con un gesto discreto e svelto, in punta alla sedia dell'ingresso. E là infilavano i calzari sulle scarpe e mettevano la mascherina non senza qualche difficoltà.

Una dose o due di disinfettante sulle mani e poi subito in piedi con l'andatura goffa per i calzari scivolosi, in direzione della camera di ricovero.

Tre colpi leggeri con le nocche sulla porta, un sorriso di circostanza e venivano risucchiati oltre la soglia lasciandomi solo con i miei brevi passi incerti in mezzo al corridoio.

E mentre l'orologio sul muro scandiva i secondi io ripetevo un altro passaggio a tornare, prima che la pompa suonasse per la batteria scarica.

Mi mancava la libertà. Volevo uscire di lì, ma soprattutto volevo tornare a poter decidere cosa fare: andare a lavorare, fare la coda nel traffico, ricevere telefonate di amici, scherzare...

Avevo voglia di ridere, come si ride quando la vita è una cosa scontata e non pensi sempre che potrebbe sfuggirti di mano come un pugno di sale.

Ricordo bene quella sensazione.
Un'attesa prolungata e sospesa.
Come trovarsi sotto al semaforo aspettando la luce verde che non arriva...

Se ci penso ora sorrido, ma quei mesi mi segnarono profondamente.

Quando al rientro dai miei giri mi accostavo al letto e con un ultimo sforzo riattaccavo la spina della ricarica della pompa per interrompere il suo bip bip insistente, poi appoggiavo la testa al cuscino e chiudendo gli occhi ripetevo a me stesso: "Ce la faccio! Ce la faccio!"

Ecco, quelle parole che mi accompagnavano fin dentro ai miei sogni lo fanno tuttora. E mi ricordano che si può superare qualsiasi ostacolo, purché si sia disposti a pazientare e a lottare quando è necessario.

Non smetterò mai di essere quella figura esile e barcollante nel corridoio dell'ospedale, nemmeno ora che ho ripreso la mia vita.

Ora come allora so che la vita può riservarmi prove difficili.
Ma ora, come allora, lo so: ce la faccio!




sabato 17 maggio 2014

Il terzo anno - The third year


E così oggi è il mio terzo anniversario.

Tre anni fa un ottimo infermiere appendeva un carico di salvezza a un trespolo d'ospedale, accanto a molte altre sacche a testa in giù, mentre io lo osservavo con gli occhi pieni di speranza.

Dentro a quel fagotto rosso sangue c’era una quantità notevole di amore e spirito di sacrificio. Il midollo di mio fratello.

Tre anni fa la mia leucemia veniva lavata via con il fluido più nobile che ci scorre in corpo e qualche colpo di spugna fatta di chemio e radio terapie.

Da allora questa malattia tremenda, per mia grande fortuna, non si è più ripresentata, ma di cose ne sono successe parecchie.

Ho cambiato prospettiva sulla mia vita, confortato anche dalle parole di coloro che hanno avuto la stessa reazione prima di me.

Ho potuto incontrare persone della cui amicizia vado particolarmente fiero e a cui rivolgo spesso un profondo pensiero di gratitudine.

Ho anche dovuto imparare a gestire la stupidità di quelli che fraintendono il racconto di un sopravvissuto e lo prendono per un vanto da esibizione piuttosto che un modo per dire a se stessi ed altri in questa folle situazione: ce l’ho fatta, ce la puoi fare.

E ho realizzato con amarezza che taluni non sono nemmeno in grado di capire fino a che punto una vita può essere sconvolta, così, da un giorno all’altro. Ieri sano, oggi spacciato, domani… forse domani non c’è!

Che questi dal "giudizio in canna" vanno semplicemente scansati. Vivono in una bolla di beata ignoranza e sarà meglio per loro se potranno continuare la loro bella esistenza non sapendo nulla di tutto questo.

Ho perso conoscenti e amici carissimi a causa di malattie gravi come la mia. Li ho visti accettare e affrontare il proprio destino con una dignità che non si riesce a descrivere, e ancora adesso mentre ci penso ho un nodo in gola che non mi fa respirare.

Ho imparato che scampare una volta al rischio di morte può non essere sufficiente: la recidiva è un rischio concreto. E che la notte diventa molto lunga se ti metti a pensare a queste cose.

E poi ho sbattuto il muso contro il fatto che ogni farmaco, ogni terapia, oltre agli effetti voluti, ne provoca sempre anche altri indesiderati. Nella mia precedente vita di “sano inconsapevole” raramente andavo oltre a un bruciore di stomaco o un senso di spossatezza. Le terapie cui mi riferisco possono innescare violente reazioni della pelle, disfunzioni al sistema circolatorio, inibire o alterare gusto, olfatto e udito…
E squassarti le ossa. Io pago il mio tributo con le mie anche, una delle quali da un anno a questa parte è piuttosto compromessa.

E quindi ho preso contatto con una nuova condizione, quella dello “stampellato”. Ho notato quanto questi bastoni colorati possano spaventare le persone e incuriosire i bambini… (e quante volte appoggi le stampelle e loro immancabilmente crollano a terra).

Ho conosciuto una folla di persone che, per le ragioni più varie, alle 7.30 del mattino sono già in acqua a fare fisioterapia.

Ho affrontato il cinismo di certi ortopedici che ti compatiscono per gli sforzi che fai e concludono dicendo che tanto prima o poi passerai sotto il loro bisturi.

E ho capito che spesso un’altra via c’è! Ma devi andartela a cercare da solo perché giova a pochi.

Poi la camera iperbarica e i suoi estimatori e detrattori. Da: “È completamente inutile” a “Può essere miracolosa”. Passando per “Non le farà male. Lei ci vada, poi vediamo”.
La mia esperienza è che il progresso c’è ed è marcato. Ma ho bisogno di molto di più e non so se potrò ottenerlo in questo modo.

Non sono stati tre anni facili. E la battuta “pensa a cosa hai superato, queste sono solo sciocchezze” ha fatto in tempo ormai a riempirmi la testa fino a uscirmi dalle orecchie. Se a un sopravvissuto a un incidente aereo, miracolosamente illeso, bastasse il fatto di avere sfiorato la morte... beh si accontenterebbe forse di restarsene lì, legato al suo sedile per tutta la vita che gli rimane?

Ho tagliato le mie cinture di sicurezza. Io e alcuni fortunati come me abbiamo lasciato quel luogo di tragedia e siamo tornati nelle nostre case. E ora vivo la mia vita aspirando alla migliore qualità possibile senza l’imbarazzo del pensiero costante che per un capello non mi trovo nell'iperspazio.

Lo devo a me stesso e alla mia famiglia.

E ora, un pensiero commosso alle anime che mi osservano... a coloro che lottano e si trovano a metà del guado... e alle figure professionali e umane che rendono tutto questo possibile…

Su il calice: tre anni di vita 2.0.







mercoledì 19 marzo 2014

Cuori d'acqua - Hearts of water


L'auto si arrestò bruscamente sotto al semaforo. La mamma di Marco era intenta a cercare l'interruttore del tergi lunotto.

Pioveva a catinelle e le spazzole anteriori facevano dondolare la macchina ad ogni passata.

Seduto sul sedile posteriore, tutto imbacuccato nella sua giacca, Marco osservava divertito i movimenti nervosi della mamma intorno allo sterzo. Quel comando non si trovava!

"Mamma, prova a girare la levetta a destra accanto al volante", suggerì infine. Aveva solo 12 anni ma era un ragazzino sveglio.

"Trovato!" esclamò finalmente la mamma con uno sbuffo.

Marco girò lo sguardo sul vetro dove le gocce d'acqua piovana scivolavano come bob su una pista da sci.

Gli piaceva osservare l'immagine distorta del mondo attraverso le bolle d'acqua che correvano.

D'un tratto nella corsia accanto si fermò un'altra auto.

La donna alla guida sembrava intenta a spiegare qualcosa di complicato e lo faceva continuando a fissare il disco rosso del semaforo davanti a lei.

Era appannato, ma si poteva scorgere al finestrino posteriore la sagoma di una ragazzina dall'aspetto annoiato, che disegnava un fiore col dito sul vetro.

Quando gli sguardi dei due giovani si incrociarono, alla ragazzina sfuggì un sorriso.

Aveva gli occhi verdi e i capelli chiari raccolti in una treccia.

Marco ebbe un moto di sorpresa quando si rese conto dopo qualche istante che lei lo stava ancora guardando.

Sorrise di rimando con un leggero imbarazzo, ma si diede un contegno e fece un timido cenno di saluto con la mano.

La ragazzina fermò il dito su un petalo del fiore incompleto e rispose al saluto.

Poi, in una zona libera del finestrino, prese a tracciare nuove linee.

Non era un disegno, sembravano piuttosto lettere dell'alfabeto. Erano stranamente insicure: Marco realizzò che la ragazzina si stava impegnando a scrivere da destra a sinistra come in un riflesso perché lui, oltre il vetro, potesse leggere.

"Lara". Ecco il suo nome: Lara.

Marco dunque si scosse e alitò sul suo cristallo, che invece era limpido, e si cimentò nella scritta riflessa, con una nota di delusione per la scarsa qualità del risultato. "Marco", scrisse, con tratto spigoloso.

Non si rese del tutto conto che aveva appena usato la mano sinistra per scrivere all'inverso sul vetro destro, pur non essendo mancino.

Lara sorrise di nuovo, più convinta, e Marco ricambiò sollevando le sopracciglia...

Il dito di Lara si mosse ancora in una nuova zona appannata. Un segno curvo, forse una mezzaluna... no, c'era una punta in basso... un cuore. Era senz'altro un cuore.

Marco sentì una vampa di calore nel petto e lasciò cadere la mascella in una espressione di totale incredulità.

Lara scoppiò a ridere... Mentre puntava il dito umido nella direzione del naso di Marco.

Lui si riprese a stento dall'emozione e, sempre con la mano sinistra, disegnò sul proprio finestrino il più bel cuore di sempre. Preciso e ben proporzionato, simmetrico e rotondo.

Lara piegò la testa di lato socchiudendo gli occhi. A Marco quel gesto parve di una bellezza infinita. Tutto era silenzio e quiete, anche la pioggia sembrava non voler disturbare...

Ora Marco avvertiva solo quell'intenso fluido caldo che emanava dal cuore e gli risaliva la gola fino a inondargli le guance e le orecchie...

Un sussulto e le due auto si mossero insieme. Quella di Lara svoltò allontanandosi. Marco ebbe appena il tempo di vedere la testolina della ragazza che si girava cercando invano l'ultimo sguardo e poi perse per sempre il contatto.

Tornò con gli occhi sul cuore che aveva disegnato sul finestrino. Alcune gocce stavano colando giù come in un pianto...

Ma non era triste, Marco. Era felice per avere provato quella sensazione così intensa e nuova.

"Mamma" chiese, "che cos'è l'amore?"



mercoledì 12 marzo 2014

L'albero - The tree


Un albero scuro in controluce. L'immagine mi passa davanti così, per caso.
La riprendo e la osservo...

Un robusto tronco piegato pare sostenere a fatica la sua chioma di rami neri, ora grossi, poi sottili. Una fitta rete di nervi, come rivoli d'inchiostro di china in fuga...

Non ci sono foglie, deve essere inverno. Le radici grandi e nodose serpeggiano in superficie prima di affondare nel terreno dove si aggrappano tenaci.

Folate di vento disegnano onde sul mare di erba esausta che circonda l'albero immobile.

Il cielo blu è al tramonto. Più su, dove è già sera, si scorgono le prime stelle.

E una riga biancastra di nuvola interseca la trama dei rami, come una antica ferita malcelata.

L'orizzonte è ben marcato e sembra voler tagliare a metà quel tronco ritorto dal vento sempre nello stesso verso.

Nell'esiguità degli elementi, l'albero si staglia nettamente, unico soggetto incolore ma vivo in un mondo freddo e avverso che si avvia alle tenebre.

Lui reggerà il peso di ogni fronda impegnando i rami via via più grossi e robusti, fino a quel fusto piegato che non vuole saperne di spezzarsi.

Reggerà per una notte ancora, aspettando testardo e muto che giunga l'alba e più in là la primavera, quando la vita si risveglia e il Creato fa di nuovo pace con Dio.